È neanche una delle ideologie più recenti: Thorstein Veblen parlava di una tecnocrazia formata da ingegneri già negli anni venti. Veblen, nel suo famoso The Engineers and the Price System parla degli ingegneri (i “tecnici”) come di una classe di persone in grado di promuovere i principi della “gestione scientifica” rivolta alla produzione, opposti ad un sistema di mercato in cui i prezzi fungono da segnale. Veblen non vedeva niente di strano in un’organizzazione corporativa, che lui voleva far assurgere a modello universale e fondamento della società, eliminando le limitazioni tecniche di quelli che lui chiamava “valori industriali”. A loro volta, questi ultimi erano dipendevano dall’efficienza produttiva e non avevano niente a che vedere con gli incentivi del mercato; anzi, vi si opponevano.
Veblen promosse le sue idee riguardo l’industria e la tecnologia come punto di partenza di quella società basata su una produzione di massa da lui immaginata. Questa società, e i suoi valori, avrebbe dovuto far nascere, tramite i lavoratori dell’industria, una nuova forma di democrazia, gestita in maniera innovativa in modo da promuovere l’efficienza, la conoscenza tecnica e l’amministrazione della cosa pubblica. Ovvero una macchina perfettamente calibrata per il dominio e il controllo della società.
Questo ideale distopico riuscì a trovare adepti. Nel corso del ventesimo subì poche modifiche, perlopiù ad opera di progressisti come Joseph Schumpeter e John Kenneth Galbraith. Oggi ne sentiamo parlare soprattutto per bocca dei politici, che pensano di parlare con la voce dell’innovazione quando sostengono la necessità di mettere specialisti in posizioni di governo. È anche una comoda ideologia per un gran numero di burocrati perché non mette in dubbio l’esistenza di un dato incarico di governo, ma semplicemente si chiede chi dovrebbe ricoprirlo. La questione non è se un governo è necessario o meno, ma chi andrà a governare. Chi vorremmo sul Trono di Ferro se non uno “specialista”? Qualcuno che non si lasci trascinare da passioni politico-ideologiche, ma da quei “valori industriali” vagheggiati da Veblen. Qualcuno che olii gli ingranaggi di quel grande macchinario che è la società.
Certo sono tutte sciocchezze, perché quando parliamo di politica parliamo di ideologia, di priorità, della scelta di un obiettivo collettivo piuttosto che di un altro. Ma non ci sono fini sociali, a meno che non si consideri la somma dei singoli obiettivi individuali in senso puramente metaforico. Che poi è la ragione per cui non è possibile affidare la gestione della cosa pubblica al controllo degli esperti, perché la definizione stessa di “gestione della cosa pubblica” è una questione ideologica soggetta a negoziati politici e opposizioni.
Non è possibile rimuovere l’ideologia dal governo perché il governo stesso è un’ideologia: l’ideologia del potere, del controllo e della soppressione della dissidenza. L’ideologia della conformità, della dimensione macro-sociale, della società intesa come astrazione, mai riconducibile alle sue componenti individuali.
Governare, lungi dall’essere un’attività senza ideologie e programmi, consiste nel cucire assieme i programma della maggioranza all’interno di una gerarchia. Non c’è da meravigliarsi se il movimento anarchico tende storicamente verso rapporti orizzontali e la creazione del consenso come strategia che consenta di evitare la nascita di maggioranze e di strutture burocratiche di potere. Questa idea di un rapporto orizzontale ha l’obiettivo di mitigare gli effetti di particolari ideologie quando queste vengono applicate alla collettività. Al contrario una tecnocrazia, con il suo tentativo di razionalizzare i processi, ricorda un dispotismo illuminato. Certo è positivo che un processo socialmente desiderabile debba essere efficiente e consenta un risparmio di risorse, ma prima dobbiamo sapere quali sono i processi socialmente desiderabili. E non lo sappiamo.
È molto ironico il fatto che i politici di lungo corso siano i più grandi (e forse i più cinici) proponenti del credo tecnocratico. Lo stesso Aecio Neves, nonostante i suoi richiami all’amministrazione tecnocratica, è specializzato in una sola cosa: la poltrona. È stato direttore di una grossa banca pubblica, segretario alla presidenza, deputato, governatore e senatore.
Forse Aecio Neves oggi è un fantoccio della retorica che lui stesso ha messo su; un ostaggio. Perché Aecio Neves non è mai stato un tecnico; il tecnico è quello che realizza i suoi programmi politici.
Traduzione di Enrico Sanna.